martedì 12 giugno 2012

SALVATORE SQUILLACE, ERA AL BAR CON GLI AMICI. FU UCCISO LA DOMENICA MATTINA DA UN PROIETTILE VAGANTE IL 10 GIUGNO DEL 1984


Un 'altra di quelle morti assurde di cui la memoria cerca di cancellare le tracce col passare del tempo. Salvatore se ne stava con gli amci al bar una domenica mattina. Il suo giorno di riposo dopo una settimana di lavoro da imbianchino. Si era alzato presto come non mai quel girno. Era lì per caso. Ed è morto per caso.

La storia che segue è tratta dal mio libro: "Al di là della notte". (Tullio Pironti editore)


È una tranquilla domenica di primavera, ma non a Marano, un Comune della provincia di Napoli dove ha la base il clan Nuvoletta, uno degli avamposti della mafia siciliana ai piedi del Vesuvio. Nella tenuta dei Nuvoletta, a Poggio Vallesana, si consuma uno degli episodi che segnano l’inizio di una delle più feroci faide tra i clan della camorra campana. Uomini del clan dei Casalesi e del clan Alfieri, guidati da Antonio Bardellino, entrano con uno stratagemma all’interno del fortino dei Nuvoletta. Sono vestiti da carabinieri. Bussano al citofono. Dall’interno pensano ad uno dei tanti controlli che fanno periodicamente le forze dell’ordine. Stavolta non è così. È un’incursione a sorpresa. Si aprono i cancelli. Ma prima che si chiudano, entrano anche altre auto appostate lontano dagli occhi delle telecamere che sorvegliano l’ingresso di Poggio Vallesana. È la resa dei conti tra clan della camorra. È una sfida che i Nuvoletta non avevano messo nel conto. L’obiettivo della spedizione militare è quello di eliminare il capostipite dei Nuvoletta, Lorenzo. La sorpresa riesce in parte. E si conclude con la morte di uno dei rampolli del clan, Ciro Nuvoletta che, ferito, tenta di scappare, ma è raggiunto dallo stesso Bardellino e finito con un colpo in faccia.

Compiuta l’incursione a sorpresa, i Casalesi e il gruppo del clan Alfieri scappano a bordo delle auto con le quali sono arrivati. I picciotti dei Nuvoletta, superato il fattore sorpresa, reagiscono armi in pugno inseguendo gli assalitori mentre scappano in auto. Si spara all’impazzata. In piazza Garibaldi, vicino ad un bar, come ogni domenica, ci sono frotte di ragazzi. Quando arrivano quattro auto che sgommano a tutta velocità, le armi da fuoco continuano a sputare proiettili. Colpi di mitraglietta, fucili a canne mozze, pistole. Si spara per uccidere, incuranti della gente che c’è per strada. Poco prima da quelle parti c’era stata una manifestazione di pensionati.  Poteva accadere una strage.  I ragazzi fuori al bar, quando sentono sparare, si buttano istintivamente per terra per ripararsi dai colpi. Uno di essi, però, non fa in tempo. Viene colpito alla tempia da un bossolo sparato dagli uomini all’interno di quelle auto. Cade in un lago di sangue. Il giovane è Salvatore Squillace, ventotto anni. Faceva l’imbianchino insieme al papà. E quella mattina in piazza Garibaldi non doveva esserci.
«Mio fratello Salvatore», racconta Concetta, la sorella più giovane di due anni, «la domenica mattina non si alzava mai prima di mezzogiorno. Il lavoro di imbianchino lo teneva impegnato per l’intera settimana e nel giorno di riposo se la prendeva comoda. Evidentemente quella mattina il suo destino era segnato. Era scritto da qualche parte che doveva incontrarsi con la morte. Scese alle nove e trenta, anche perché il sabato precedente non aveva lavorato. Andò fuori al bar, in piazza Garibaldi, per incontrarsi con i suoi amici. Il bar era il loro abituale punto di ritrovo. Le macchine di quelle persone che scappavano da Poggio Vallesana si materializzarono all’improvviso. Salvatore stava parlando quando arrivarono. Sparavano come forsennati. Uno di quei colpi si conficcò nella tempia di mio fratello.
Salvatore era alto 1,78. Era il più lungo della comitiva. Forse anche per questo fu colpito. Gli altri, tutti più bassi di lui, sentirono passare sopra la propria testa i proiettili. Salvatore a terra ci cadde. Una confusione indescrivibile in quei momenti così concitati. Urla, paura, tante gente che scappava. Salvatore abitava con i miei genitori a circa cento metri dal luogo in cui fu colpito. Un palazzo dove c’erano altri miei parenti. Anche mia mamma si affacciò dal balcone dopo aver sentito i colpi di pistola e le urla della gente. “Perché tutta questa confusione?”, chiese. Ma nessuno seppe dirle di più. Le dissero solo che avevano sparato e che una persona era stata ferita. Nient’altro. Anche mio padre era a casa quella mattina. Lo seppero poco dopo che il ferito era Salvatore. Nel frattempo mio fratello fu trasportato al Cardarelli di Napoli. Ci pensarono gli amici di sempre a farlo. Lo caricarono su un’auto e vi arrivarono a tutta velocità. Era ancora vivo. Quando vennero ad avvertire me, stentavo a crederci. “Salvatore a quest’ora starà ancora dormendo. Vi sbagliate, non può essere mio fratello”, dicevo a chi era venuto a portarmi la triste notizia. Ma lo dicevo solo perché speravo che non fosse vero. Andammo tutta la famiglia al Cardarelli. Io, mio padre Armando, mia madre Angela e mia sorella Nunzia, che all’epoca aveva diciannove anni e non era sposata. Io avevo una bambina di due anni. La lasciai da un vicino. Salvatore era in sala di rianimazione. Rimase sei giorni tra la vita e la morte. E noi, altrettanto, restammo per sei giorni e sei notti in ospedale a sperare che mio fratello si riprendesse. Papà fu il primo a parlare coi medici. Gli dissero subito che non c’era alcuna speranza. Da allora papà non disse più una parola. Si chiuse in un mutismo profondo. 

Dopo sei giorni di coma, Salvatore spirò. Non ci fu più nulla da fare. Ai suoi funerali accorse una folla enorme, gli amici, i rappresentanti delle istituzioni, ma anche quelli che non lo conoscevano. La sua morte colpì tutti. «Mia mamma dopo i funerali si chiuse. Il dolore prese il sopravvento», dice con la voce tremante e con un filo di commozione Concetta. «Non voleva vedere più nessuno. Chiudeva le tapparelle, chiudeva la luce. Stava sempre al buio. Per tre anni rimase chiusa in casa. Come se non esistesse più niente e nessuno. Mio padre, allo stesso modo, non aveva più voglia di vivere. Lui poi con Salvatore ci stava anche sul lavoro. Un colpo durissimo. Da quel giorno non è mai stato più lo stesso.
All’ospedale, in quei giorni tremendi, vennero a trovarlo tutti gli amici. E ne aveva tantissimi. Salvatore era un ragazzo semplice. E come tutti i giovani della sua età, amava la vita. Spendeva molto del suo tempo libero aiutando le persone in difficoltà. Era una delle cose che noi non sapevamo. Due ragazzi in particolare erano aiutati da Salvatore, Patrizia e Lello. Erano due ragazzi disabili. Mio fratello frequentava gli ambienti cattolici e alcuni dei preti che lui conosceva, padri francescani, ci sono stati molto vicini anche dopo la sua morte».

Mio padre è morto per il dolore a ottantuno anni. Acasa dei miei genitori non c’era più un giorno di festa. Non esistevano più le domeniche. A Natale era proibito anche fare l’albero. Mia mamma non ne voleva sapere. Ripeteva sempre: “Ormai sono un vegetale. Non vivo più. Me l’hanno strappato negli anni più belli. Non me lo dovevano fare. Non me lo dovevano fare”. Salvatore era il primo figlio e anche maschio. E mia mamma stravedeva per lui. Per anni ha portato il lutto. Poi, man mano che passava il tempo, proprio perché c’erano i miei figli, mia madre si è aperta un po’. Ma sono sopraggiunte le malattie anche per lei. Tra ischemie e altre patologie sta molto male. Non riesce più a parlare. Non si è mai ripresa da quel 10 agosto del 1984. È assente, vuota. E ogni giorno che passa è sempre la stessa storia. Sempre più assente. Ora le siamo vicini io e mia sorella Nunzia. Ma mia madre, che ha settantasette anni, è spenta dentro. Vive con me a casa mia. La casa dove abitavamo l’abbiamo venduta. Siamo stati tutti d’accordo a cederla. Troppi ricordi, troppe cose che ricordavano Salvatore. Nessuna di noi l’ha voluta. Ho chiesto anche ai miei figli e nessuno è voluto andarci.

I miei ragazzi sono ancora traumatizzati. Addirittura non riescono a vedere i film di mafia o camorra. Gli ricordano la morte dello zio Salvatore». Sulla tomba di Salvatore, nel cimitero di Marano, ci sono sempre fiori. «Sono gli amici che li portano», dice Concetta sospirando. «Spesso vicino alla tomba ci trovo un suo amico, Gaetano, uno dei più intimi di Salvatore. Ci va con la sua bambina a trovarlo. Gaetano ha il rimorso di non averlo salvato, perché quella mattina voleva portarlo con lui a comprare del pesce. Salvatore non ci volle andare. “Se avessi insistito», dice sempre, “forse Salvatore sarebbe ancora vivo”». Ma Gaetano non è il solo che si ricorda di Salvatore. Sono in tanti gli amici che passano al cimitero per una preghiera. E poi c’è una signora che gli pulisce sempre la tomba. «È la mamma di Lello, il ragazzo disabile che Salvatore aiutava. Ora è morto. “Perché viene a pulire la tomba di mio fratello?”, le ho chiesto quando l’ho trovata lì. “Salvatore trattava mio figlio Lello come un fratello. E io non me lo dimentico”».

«Al processo», dice ancora Concetta, «non ci siamo costituiti parte civile. Un po’ per la paura, un po’ per il disinteresse. Siamo lontani da certe cose e certi ambienti. A noi hanno detto che quelli che l’hanno ucciso a loro volta sono morti di morte violenta o sono in carcere. Oggi, però, sarebbe diverso. Sapremmo come agire. Ora giro nelle scuole per raccontare ai ragazzi chi era mio fratello. Lo faccio soprattutto per dire che queste cose non devono più accadere».

Nella villa comunale di Marano c’è il “giardino della memoria”. In quel giardino c’è un albero col nome di Salvatore. «Un bel gesto», dice sorridendo Concetta. «Desidererei che mio fratello fosse ricordato anche dai ragazzi che non l’hanno conosciuto. Non mi dispiacerebbe se una scuola di Marano avesse il suo nome».

Il Comune di Marano nel 1998 ha intitolato una strada alla memoria di Salvatore Squillace.

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