venerdì 21 settembre 2012

ROSARIO LIVATINO "IL GIUDICE RAGAZZINO" UCCISO 22 ANNI FA. LE MANIFESTAZIONI PER RICORDARLO

Ricorre oggi il 22/mo anniversario dell'assassinio del giudice del Tribunale di Agrigento Rosario Angelo Livatino, ucciso dalla mafia. Nella sua città, Canicattì, viene ricordato per iniziativa dell' associazione d'impegno civico ed antimafia «Tecnopolis» e di quella culturale «Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino» con una celebrazione eucaristica nella chiesa di San Domenico, in contrada Gasena, luogo dell'agguato. L'omaggio avverrà presso la stele fatta erigere a proprie spese, e con tanto di concessione edilizia, dagli anziani genitori del magistrato di cui una anno l'Arcivescovo di Agrigento ha avviato il processo di canonizzazione. Ad Agrigento sempre oggi prende il via il corso di formazione organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura dedicato a giovani magistrati e giovani avvocati sul tema «La tutela del lavoratore, tra novità e revirements giurisprudenziali». Le iniziative proseguiranno nei prossimi giorni con il programma della «Settimana della legalità in memoria dei giudici Saetta e Livatino», che domani alle 10 nel Teatro Sociale di Canicattì prevede il convegno «Non di pochi, ma di tanti. esempi, valori ed azioni per la democrazia e la Giustizia», con monsignor Giovanni D'Ercole, il direttore della Dia Alfonso D’Alfonso, Antonello Montante presidente di Confindustria Sicilia, Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e don Giuseppe Livatino, postulatore della causa di canonizzazione. (ANSA).

lunedì 17 settembre 2012

QUATTRO ANNI FA LA STRAGE DI CASTEL VOLTURNO

Il 18 settembre 2012, ricorre il quarto anniversario della “strage di Castel Volturno” in cui vennero uccisi dalla camorra sei immigrati ghanesi. La strage avvenne attorno alle 21, in un negozio di sartoria, al km. 43 della domiziana. Fu un gruppo di 5 persone, capeggiate dal boss Giuseppe Setola, che riversò su 7 inermi cittadini, oltre 125 proiettili di kalashnikov e mitragliatrici varie. Uno solo se la cavò, Joseph Ayimbora, perché fece finta di essere morto. Grazie alla sua testimonianza gli autori della strage sono stati condannati all’ergastolo. Joseph Ayimbora è prematuramente scomparso lo scorso febbraio, per problemi di cuore, ma anche per le gravi ferite alle gambe e all'addome. Aveva un permesso di soggiorno dal 1998. La sua collaborazione con le forze dell'ordine fu decisiva per la ricostruzione dei fatti e l'individuazione degli assassini. Il “Comitato don Peppe Diana” ha lanciato una raccolta di firme da consegnare al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per assegnare una medaglia d’oro al merito civile a Joseph Ayimbora per il coraggio dimostrato nel denunciare e poi testimoniare al processo contro il clan dei casalesi. La raccolta firme, cominciata a giugno, con la rassegna del Festival dell’Impegno Civile, ha già avuto centinaia di adesioni.
Intanto la sentenza di primo grado, che ha accertato anche che Setola e i suoi uomini erano spinti da un sentimento di avversione nei confronti di persone dalla pelle nera, è stata impugnata dagli avvocati difensori degli imputati, compreso il capo relativo alla aggravante dell’odio razziale.
Il 18 settembre due appuntamenti ricorderanno la strage. Uno alle 9, presso il comune di Castel Volturno, indetto dalle associazioni sindacali e di categoria che sono riuniti attorno al Comitato antiracket “Mò basta!” (Consorzio Agrorinasce, Cgil, Cisl, Uil, Camera di Commercio, Coldiretti, Cia,   ecc.) e un’altra presso il luogo della strage, alle per 11,30, indetta dalle associazioni di volontariato che operano con i migranti (Padri comboniani, centro sociale ex canapificio, Libera, Caritas, ecc.) qui il magistrato della DDA, Cesare Sirignano, terrà una “lezione anticamorra”.

domenica 2 settembre 2012

I GIORNALISTI ITALO TONI E GRAZIELLA DE PALO, SCOMPARSI IN LIBANO IL 2 SETTEMBRE 1980, ASPETTANO ANCORA GIUSTIZIA


Se fosse accaduto in Sicilia, sarebbe stato un caso di lupara bianca. Invece Italo Toni e  Graziella De Palo, due giornalisti, sono scomparsi in Libano il 2 settembre 1980. Da allora sono passati trentadue anni e della loro sorte non se n’è saputo più nulla. E non sono annoverati tra le vittime che hanno avuto giustizia. Sullo sfondo della loro scomparsa un intreccio di affari, misteri e traffici di armi, inconfessabili. Uno scenario simile a quello in cui maturò l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Italo Toni e  Graziella De Palo erano arrivati a Beirut il 22 agosto 1980, su invito del rappresentante romano dell’Olp, Nemer Hammad. Esattamente dieci giorni prima di quel 2 settembre, per documentare le condizioni di vita dei profughi palestinesi. Graziella, 24 anni, collaborava con “Paese Sera” e “L’Astrolabio”, la testata fondata e diretta da Ferruccio Parri. Aveva già pubblicato diverse inchieste sui traffici di armi. Italo, invece, 50 anni, giornalista professionista, era redattore dell’Agenzia “Notizie”. Erano partiti da Roma alla volta di Damasco  con un volo Syrian Arab Airlines. Il visto d’ingresso era stato fornito dall’Olp, come pure il biglietto aereo e l’ospitalità in un albergo  di Beirut. Erano giunti a Damasco la sera del 22 agosto, accolti da un rappresentante locale dell'OLP. Si registrarono a Beirut in qualità di giornalisti ospiti della resistenza palestinese. Stabilirono la loro base in un albergo dell'organizzazione palestinese situato nella zona Ovest della capitale libanese: l'hotel Triumph.


Italo Toni, dopo qualche giorno, chiese di poter visitare le postazioni militari palestinesi del Sud. Quelle più attive nella guerra contro gli israeliani. Ma bisognava rivolgersi al "Fronte Democratico" di Nayef Hawatmeh (uno dei gruppi minori che costituiscono l'organizzazione palestinese). La visita viene organizzata per il 2 settembre. Il giorno prima i due giornalisti si recano all'ambasciata d'Italia, per segnalare la loro presenza in Libano. Li riceve il Primo Consigliere Tonini. Spiegano il motivo per cui sono in Libano e lo informano  che il giorno dopo saranno accompagnati da esponenti del "Fronte Democratico", per la visita nelle zone più calde della guerra. Italo Toni sa che quella visita può essere pericolosa, perciò, dopo aver chiesto la protezione dell'ambasciata: raccomanda al consigliere: "Se tra tre giorni noi non siamo rientrati in albergo date l'allarme, venite a cercarci". "Sì, sì, senz'altro - risponde Tonini - Faremo di tutto".


La mattina del 2 settembre 1980, Italo e Graziella escono dall’albergo e salgono su una jeep. Destinazione:  la linea di fuoco nei pressi del castello di Beaufort, dove si consumava una delle battaglie più cruenti tra palestinesi e israeliani. Da quel momento si perdono le loro tracce.


Dopo tre giorni, nonostante i due giornalisti italiani non rientrino in albergo, l’allarme non scatta. Nessuno li cerca. Si allerta la famiglia di Graziella, perché il 15 settembre, data fissata per il rientro in Italia,  la ragazza non si fa viva. I familiari contattano gli uffici dell’Olp che  danno notizie rassicuranti. Ma non corrisponderanno al vero. Il 4 ottobre tre italiani iscritti ad una loggia massonica tra cui una giornalista de “La Nuova Cucina”, Edera Corrà, si recano in Libano per intervistare il capo delle forze falangiste libanesi, Béchir Gemayel. Prima di partire, i massoni libanesi cui la Corrà si è rivolta, informano i tre italiani che i cadaveri dei due giornalisti scomparsi sono stati appena ritrovati e portati all'obitorio dell'ospedale americano, situato nella zona occidentale della città. Ma nonostante un appuntamento preso per assistere al riconoscimento dei cadaveri, i tre non li faranno mai avvicinare all’ospedale. Si fa strada l’ipotesi che i due giornalisti siano stati uccisi dal “Fronte popolare palestinese” una delle fazioni che fa capo a capo George Habbash, perché una segnalazione da Roma agli agenti di “Forza 17” il servizio segreto palestinese, asseriva che Italo Toni fosse un giornalista legato ai servizi israeliani. Da quel momento in poi inizia un depistaggio continuo, con la comparsa di personaggi siriani e palestinesi risultati non affidabili e personaggi dei servizi segreti, come il generale Giuseppe Santovito, iscritto alla P2. Faranno di tutto per non far scoppiare “il caso Toni - De Palo”. Quale verità si doveva coprire? Ai famigliari verrà ripetutamente detto di non recarsi in Libano alla ricerca di Graziella e di Italo. La mamma di Graziella, nel giugno del 1983, scrive una lettera al presidente della Repubblica, Sandro Pertini: “Sono convinta che il crimine si è consumato con la connivenza di alcuni settori dei servizi dello Stato italiano – scrive la signora de Palo -  divenuti strumento di loschi interessi e traffici a diverso livello, servizi nella cui buona fede avevamo creduto, quando fingevano di adoperarsi per riportarci nostra figlia, ingannandoci nel più cinico dei modi…”.

Solo di fronte al rischio di un' incriminazione per falsa testimonianza, il generale Santovito e  poi il colonnello Stefano Giovannone, uomo del sismi a Beirut, opposero il segreto di Stato, evitando così di rivelare quali fossero i rapporti tra lo Stato italiano e i gruppi palestinesi.  Verrà incriminato ufficialmente George Habbash per la scomparsa dei due giornalisti, ma poi sarà assolto al processo. Quindi nessun colpevole per la scomparsa di Italo e Graziella.

Nel frattempo, a dicembre nel 2009, la presidenza del Consiglio ha deciso di rendere consultabili  parte dei documenti che compongono il dossier dei servizi segreti militari. Si tratta di 1000 pagine su 1200. Ma i familiari  di Graziella sono convinti che anche quelle pagine non contengano la verità.  Il fratello minore di Graziella, Fabio De Paolo, intervistato da Repubblica il 17 dicembre del 2009, dichiara: "Non vorremmo che questa svolta si riveli una vittoria di Pirro. Se i pregressi rapporti tra Olp e Sismi continuano a prevalere sulla verità della scomparsa di mia sorella, temo che avremo accesso solo ai documenti che ci vogliono fare vedere. (…) A noi non interessa svelare o denunciare vecchi accordi internazionali. Noi cerchiamo solo la verità. Dopo tanti misteri e tanti depistaggi, ne abbiamo diritto. Vogliamo ancora credere nella giustizia".

sabato 1 settembre 2012

IL 3 SETTEBRE DI 30 ANNI FA, L'OMICIDIO DALLA CHIESA



Il 30  aprile del 1982 il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, viene nominato Prefetto di Palermo. E' la sua terza volta in Sicilia. C'era stato come giovane ufficiale dei Carabinieri nel 1949 a combattere il separatismo di Giuliano di Montelepre e poi  nel 1966 con il grado di Colonnello, per combattere Cosa Nostra. Ora ci torna da Prefetto. Lo ammazzeranno la sera del 3 settembre del 1982, esattamente dopo cento giorni di permanenza nel capoluogo siciliano.
 
 
Quella sera il nuovo prefetto di Palermo, insieme alla giovane moglie, Emmanuela Setti Carraro, trentadue anni, aveva deciso di uscire per andare a cena. Erano pochi i momenti intimi vissuti in quei mesi concitati nella lotta contro la mafia. Era stato fatto tutto così in fretta. Carlo Alberto fu nominato prefetto di Palermo  sull’onda emotiva dell’uccisione del segretario regionale del Pci, Pio La Torre. Poi il matrimonio, il 12 luglio dello stesso anno, e dunque il trasferimento a Palermo. E poi l’isolamento in cui si era venuto a trovare il prefetto. Lo aveva denunciato anche attraverso i giornali in una intervista a Giorgio Bocca sulle colonne del quotidiano «la Repubblica». Emmanuela quella sera lo voleva tutto per sé il generale. Tanto che si mise a guidare lei l’auto, come per dire: «Stasera esisto solo io». Era una delle poche volte che poteva godersi il marito.
 
Normalmente le sue giornate il prefetto le cominciava alle sette del mattino e le finiva dopo la mezzanotte. A fargli da scorta c'era Domenico Russo, “Mimì”, faceva da autista e da scorta al generale. Era l’unico agente di scorta perché all’epoca non esisteva un servizio come quello di adesso. E l’auto non era nemmeno blindata. A scortare il prefetto ci doveva essere uno dei suoi uomini di fiducia, un giovane carabiniere di Marano, Gennaro Nuvoletta. Ma aveva ritardato la il suo arrivo a Palermo perché il 2 luglio dello stesso anno, la camorra aveva ucciso a Marano il fratello, Salvatore Nuvoletta, 20 anni,  anche lui  carabiniere in servizio a Casal di Principe.
 
Uscirono da villa Whitaker, dov’è ospitata la prefettura, attorno alle ventuno. Dietro di loro si avviarono anche due auto e una moto. Una Bmw, una Fiat 132 e una moto Suzuki. In quelle macchine c’erano gli uomini che alcuni minuti dopo li massacreranno a colpi di mitra. Alle ventuno e quindici, in via Isidoro Carini, i sicari si materializzano. Affiancano l’A112 con dentro il generale e la moglie Emmanuela Setti Carraro e un’altra auto affianca l’Alfetta guidata da  Domenico Russo. I kalashnikov cominciano a crepitare. Emmanuela è colpita. L’auto sbanda. Finisce la corsa vicino ad un marciapiede. Per lei e per il generale non c’è più niente da fare.
Anche per Mimì, sventagliate di kalashnikov. Piovono proiettili. Per lui entra in azione la motocicletta che, secondo i pentiti, era guidata da Pino Greco, detto “Scarpuzzedda”. La sua auto va a sbattere dietro la A112 con dentro i corpi del generale e della moglie. Mimì scende dall’auto per difendere il prefetto e la giovane consorte. Si rende subito conto che il gruppo di fuoco era troppo numeroso e con la sua pistola d’ordinanza avrebbe potuto fare ben poco. Nonostante ciò, non esitò a sparare e a cercare di fermare i killer. Non resistette a lungo. Il volume di fuoco che misero in campo i mafiosi ebbe subito ragione del povero agente scelto. In due minuti il massacro era compiuto.
I killer si fermano. Volevano essere certi che il prefetto rompiscatole, la moglie e il carabiniere di scorta fossero morti. Nel giro di pochi minuti è tutto finito. Le auto dei killer partono a tutta velocità. Le troveranno poco dopo incendiate e quasi irriconoscibili. Domenico Russo, però, non è morto, è ferito gravemente. Trasportato in ospedale, i medici lo dichiareranno clinicamente morto. Morirà dopo tredici giorni di agonia.




«Cosa mi sento di poter dire a distanza di 30 anni? Che quello di mio padre fu un delitto chiaramente, spudoratamente, politico». Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto, ucciso sotto i colpi di kalashnikov da un commando mafioso il 3 settembre del 1992, in via Carini a Palermo, non usa mezzi termini. La sua analisi è lucida. Un atto d'accusa fermo contro una politica che cerca altrove le «ragioni evidenti» di una condanna a morte. Ma la verità sta lì. In quei cento giorni trascorsi a Palermo. Nell'isolamento e nella delegittimazione del generale che aveva colpito a morte il terrorismo. «Vidi mio padre - racconta all'Adnkronos Nando Dalla Chiesa - telefonare e cercare risposte che non arrivarono mai. Vidi pezzi dello Stato non farsi trovare pronti. All'epoca della lotta al terrorismo aveva dimostrato la sua autorevolezza, la capacità di farsi sentire, ma in Sicilia c'era attorno a lui un senso di vuoto. Mio padre non sentiva la presenza dello Stato dietro di sè». Di più. C'era nei suoi confronti una «resistenza sorda da parte di un potere che si sentiva minacciato, perchè sapeva di avere a che fare con un uomo caparbio, autorevole, dalle grandi doti investigative». Un'ostilità, che si tramutò in tentativo di delegittimazione e in progressivo isolamento. «Quello che stava accadendo era palese - dice ancora Nando Dalla Chiesa -. Una parte della politica viveva mio padre come un corpo estraneo. Ma mai potevo pensare, e di questo me ne faccio una colpa, che potessero ucciderlo. Sarebbe stato, mi dicevo, un omicidio plateale con la firma. Ho capito con gli anni che un assassinio può essere firmato, ma la gente può anche rifiutarsi di leggere quella firma e cercare altrove le ragioni. Così avvenne per mio padre».

Carlo Alberto Dalla Chiesa lo aveva capito. A sue spese purtroppo. Il 10 agosto in un'intervista a Giorgio Bocca, l'ultima, disse: «Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso, ma si può uccidere perchè è isolato». Lui era partito per Palermo il giorno stesso (30 aprile 1982) in cui la mafia aveva ucciso Pio La Torre, segretario siciliano del Pci. Era arrivato con procedura d'urgenza perchè lo Stato aveva scelto lui per combattere la battaglia contro Cosa nostra. Non era la sua prima volta in Sicilia. Il generale c'era già stato nel 1949 da giovane ufficiale con l'incarico di comandante del gruppo squadriglie delle Forze Repressione banditismo di Corleone (Palermo). Agli ordini del generale Ugo Luca, fu impegnato nella durissima guerra contro il bandito Giuliano di Montelepre e in dieci mesi di lotta al banditismo riuscì a scompaginare e debellare numerosi gruppi criminali. Un impegno importante che gli valse una Medaglia d'argento al valor militare. A Corleone ereditò tra l'altro, 64 indagini su omicidi ad opera di ignoti, fra cui quello di Placido Rizzotto, segretario della Camera del Lavoro, scomparso il 10 marzo del 1948. Dalla Chiesa giunse ad indagare e incriminare, per primo, l'allora boss emergente Luciano Liggio.

Dal 1966 al 1973 tornò nell'Isola con il grado di colonnello, al comando della legione carabinieri di Palermo. Furono gli anni dello scontro interno tra le famiglie mafiose per la conquista del potere e dei morti eccellenti. Dalla Chiesa si trovò ad indagare sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, sulla morte del procuratore Pietro Scaglione. Il risultato di queste indagini fu il dossier dei 114, nel quale si fecero per la prima volta i nomi di Gerlando Alberti e Tommaso Buscetta come elementi centrali di molti fatti di sangue, oltre che quelli di Luciano Liggio e Michele Greco. Scattarono così decine di arresti di boss. Nel 1982 il Consiglio dei ministri lo nominò prefetto di Palermo. È lui l'uomo chiave in grado di vincere la sfida contro Cosa nostra che aveva ripreso ad insanguinare le strade di Palermo. L'allora ministro Virginio Rognoni lo convinse: per combattere la sua battaglia contro i boss avrebbe avuto poteri speciali. Ma le promesse rimasero tali. «Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì» disse amareggiato. La lotta a Cosa nostra doveva essere fatta strada per strada, lo Stato doveva far sentire la sua presenza, servivano uomini e mezzi. Eppure nonostante la carenza di risorse il generale dei cento giorni elaborò una sorta di mappa dei boss della nuova mafia: è il rapporto dei 162. Poi iniziò una lunga serie di arresti, di indagini, anche in collaborazione con la Guardia di Finanza, per appurare eventuali collusioni tra politica e Cosa nostra. È la sua condanna a morte.
 

«Qui è morta la speranza dei palermitani onesti» recitava una scritta comparsa il giorno seguente vicino al luogo dell'eccidio. «Da allora di strada se ne è fatta tanta - dice Nando Dalla Chiesa- Molti hanno contribuito a farla dalla società civile alle associazioni, dall'Università a Confindustria. Oggi non è più un tabù parlare di mafia. Eppure questi stessi passi avanti non si vedono nel mondo politico. Per una parte della politica - denuncia - la mafia non è un problema, ma al contrario una risorsa. C'è una contrattazione continua, come in un grande mercato in cui scambiano voti e favori. Credo - dice amaramente - che se i politici avessero nel contrasto a Cosa nostra la stessa spinta che hanno nel mantenimento delle proprie posizioni di privilegio, nell'interesse per la legge elettorale, oggi avremmo completamente debellato la mafia. Purtroppo non è così e Cosa nostra non viene vista come un problema di sopravvivenza». Nell'ambito delle celebrazioni per ricordarlo in occasione del trentennale della sua uccisione a Corleone (Palermo) è stata scoperta una targa. Alla cerimonia, organizzata dal Comando Legione Carabinieri Sicilia e dalla Prefettura di Palermo, hanno partecipato le massime autorità civili e militari.

 Il programma delle commemorazioni, che si svolgeranno anche a Parma e Milano, prevede poi il 3 settembre alle 9 nella Caserma a lui intitolata a Palermo, sede del Comando Legione Carabinieri Sicilia la deposizione di una corona di fiori. A seguire alle 10 sul luogo dell'eccidio alla presenza del ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri, delle massime autorità civili e militari e della figlia Rita Dalla Chiesa, saranno deposte delle corone d'alloro anche sul luogo dell'eccidio in via Isidoro Carini. Subito dopo don Salvatore Falzone officerà la Santa Messa nella chiesa di San Giacomo dei militari e a seguire ci sarà la visita alla Sala della Memoria, sempre all'interno della Caserma Carlo Alberto Dalla Chiesa. Mentre alle 18.30 a Palazzo delle Aquile, sede del Comune di Palermo, Luciano Mirone, presenterà il libro «A Palermo per morire. I cento giorni che condannarono il generale Dalla Chiesa. All'incontro parteciperanno anche il sindaco del capoluogo siciliano, Leoluca Orlando, il pm antimafia Antonio Ingroia, Riccardo Orioles e Giuseppe Casarrubea. Un altro momento commemorativo è in programma martedì 4 settembre alle 18 presso Sala De Seta ai Cantieri culturali alla Zisa, sempre a Palermo. Nando Dalla Chiesa, Alfonso Giordano, Vito Lo Monaco, Piergiorgio Morosini si confronteranno su »Carlo Alberto Dalla Chiesa: mafia e politica. Una scia di sangue lunga 30 anni. Consuelo Lupo e Gabriello Montemagno leggeranno poi l'intervista del 10 agosto 1982 di Giorgio Bocca al prefetto Dalla Chiesa. Mentre Dora Dalla Chiesa presenterà il docufilm «Generale» per la regia di Lorenzo Rossi Espagnet, dedicato al nonno. Porterà i suoi saluti il sindaco di Palermo Leoluca Orlando.


Dino Russo, il figlio di Domenico, l’agente di scorta di Dalla Chiesa: «A Palermo erano certi che sarebbe successo, tutti si aspettavano quello che poi è accaduto. Si può dire che in qualche modo il destino di Dalla Chiesa era segnato. La mafia, che lo ha ucciso insieme a mio padre, c'è ancora oggi anche se ha abbandonato la tattica stragista. La verità è che c'è ancora tanto da fare prima di poter dire di avere vinto la battaglia contro cosa nostra». Dino Russo, figlio di Domenico, capo scorta di Carlo Alberto Dalla Chiesa, ripercorre con l'Adnkronos gli attimi seguiti alla strage di via Carini, che vide il prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l'agente Domenico Russo morire sotto i colpi dei killer mafiosi. «All'epoca ero un bambino, lo venni a sapere dal telegiornale. Dalla Chiesa era un grande uomo, che ha sconfitto le Brigate Rosse, una persona di cuore. Era deciso a contrastare la mafia, di certo -rileva- lui e mio padre si sarebbero opposti a qualsiasi eventuale ipotesi di trattative con la mafia da parte delle istituzioni».