sabato 14 aprile 2012

GIUSEPPE SALVIA, VICEDIRETTORE DEL CARCERE DI POGGIOREALE, UCCISO 31 ANNI FA PERCHE’ EBBE IL CORAGGIO DI DIRE NO A CUTOLO


Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, è tra i pochi ad aver affrontato faccia a faccia il boss Raffaele Cutolo. Lo ha fatto da servitore dello Stato e per questo ha dato la vita.

La storia che segue è pubblicata nel mio libro: "Al di là della notte". Ed. Tullio Pironti

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«Dottò, Cutolo non si vuole far perquisire. Cosa dobbiamo fare? Sa, noi abbiamo famiglia…». Giuseppe Salvia, che del carcere di Poggioreale era il vicedirettore, non ci pensò due volte. Uscì dal suo ufficio e fece ciò che prevedeva il regolamento: la perquisizione dei detenuti che rientravano in carcere dopo aver partecipato ad un’udienza processuale. Tra le facce incredule degli agenti di polizia del carcere, cominciò lui stesso la perquisizione del boss Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. Era il 7 novembre del 1980. Quel giorno Cutolo rientrava da una delle udienze sul processo alla Nuova Camorra Organizzata. Non si aspettava il gesto di Giuseppe Salvia.


 
Per lui era una sorta di sfida. Quel gesto metteva in discussione la sua autorità di boss davanti a tutti. Cutolo ebbe anche un moto di stizza e cercò di dargli uno schiaffo. Giuseppe Salvia, che era vicedirettore del carcere di Poggioreale dal 1973, conosceva i codici non scritti della malavita. Lui che il carcere aveva tentato di renderlo anche più umano, sapeva bene che quella perquisizione poteva costargli cara. Era conscio dello spessore criminale di quel detenuto, ma sentiva forte il dovere di riaffermare il potere dello Stato. E, infatti, fu la condanna a morte. Nei dodici mesi precedenti nelle carceri italiane c’erano stati ben dodici omicidi. La sera del 23 novembre 1980, quando arrivò una forte scossa di terremoto che sconvolse i comuni dell’Irpinia e della Basilicata, a Poggioreale avvenne una carneficina. Giuseppe Salvia quella sera del terremoto si recò al carcere a piedi, dopo aver messo al sicuro la sua famiglia. Tornò a casa dopo due giorni, perché volle prima assicurare una condizione di migliore vivibilità per i detenuti.


 
«Mio padre sapeva bene a cosa andava incontro», dice Claudio Salvia, il secondo figlio di Giuseppe, «ci furono anche svariati tentativi di corruzione, soldi fatti trovare in ufficio e telefonate minatorie, ma lui, imperterrito, ha scelto la legalità e la fedeltà per lo Stato. Lo stesso Stato che lo ha lasciato solo. Papà chiese anche al Ministero di essere trasferito perché ormai aveva capito bene che era diventato un personaggio scomodo. Il trasferimento arrivò qualche giorno dopo l’uccisione. Papà era anche sul “libro nero” delle Brigate Rosse. Questo libro venne rinvenuto in un blitz dei carabinieri e vicino al suo nome c’era il modello della sua auto con la targa (era una Fiat 128 di colore blu). Ovviamente l’auto venne fatta sparire e fu sostituita da una Ritmo».


La sua sentenza di morte, però, non tardò ad essere eseguita. Giuseppe Salvia fu ammazzato il 14 aprile del 1981 da un commando di sei uomini legati a Cutolo, sulla tangenziale di Napoli, allo svincolo dell’Arenella, mentre tornava a casa. Quel giorno il vicedirettore esce alle quattordici dal carcere. Un’ora prima del suo consueto fine turno. Sale sulla sua Fiat Ritmo e si avvia verso casa, nel quartiere dell’Arenella, dove lo sta aspettando sua moglie, Giuseppina Troianiello, trentatré anni, che aveva sposato nel luglio del 1975. Dal loro matrimonio erano nati due bambini, Antonino e Claudio, che all’epoca avevano cinque e tre anni. A casa, Giuseppe Salvia non ci arriverà mai. Fuori dal carcere i killer aspettano solo che parta. Lo seguono con due auto. Quella su cui sono i killer che lo uccideranno è una Giulietta. Giuseppe Salvia si accorge di quell’auto che lo segue e sulla tangenziale, vicino al viadotto dell’uscita dell’Arenella, improvvisa una retromarcia cercando di tamponare la Giulietta. Ma la manovra per bloccarli non riesce. Scende dall’auto e tenta di scappare. Sarà inutile. I killer scendono e sparano. Il vicedirettore di Poggioreale muore sul colpo proprio al centro delle tre corsie della tangenziale. L’auto dei killer verrà ritrovata poco dopo in una strada della zona del Vomero.



La moglie, Pina, insegnante di educazione fisica nelle scuole superiori, ai funerali dirà: «Mi hanno tolto tutto. E lo hanno tolto anche ai miei figli». Ai due figli, Pina non dirà subito la verità. Dirà che il padre aveva avuto un incidente. Gli parlerà dell’omicidio solo dopo alcuni anni. Quando saranno più grandicelli e in grado di capire che tipo di persona era il loro papà. «Dovete essere fieri di lui, perché credeva nel suo lavoro ed è morto perché era dalla parte della legalità». Al suo funerale arriveranno sessantotto corone di fiori. Le invieranno i detenuti come segno di ringraziamento nei confronti di una persona che anche in una istituzione così violenta come il carcere non aveva perso la sua umanità. Giuseppe Salvia considerava i detenuti delle persone come tutti gli altri e non carne da macello. Per l’omicidio del vicedirettore del carcere di Poggioreale vengono condannati all’ergastolo Raffaele Cutolo e la sorella Rosetta, insieme con altri due imputati, Carmine Argentato e Mario Iafulli. I giudici, inoltre, condanneranno a ventiquattro anni di reclusione Mario Incarnato, a cui vengono concesse le attenuanti generiche per la collaborazione fornita agli inquirenti, e a quattordici anni Roberto Cutolo, figlio del boss di Ottaviano.


Giuseppe Salvia era nato a Capri il 23 gennaio 1943, nella casa paterna di Palazzo Canale, secondogenito dopo la sorella Immacolata. A Capri fece le scuole dell’obbligo. Il padre Antonino e la madre Amalia D’Anchise decisero successivamente di avviarlo agli studi classici e così lo indirizzarono dai padri Barnabiti, presso il convitto Bianchi. Poi, la laurea in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Napoli Federico II.


Dice Antonino, oggi funzionario dello stesso Ministero del padre: “Mio padre era una persona che contrastava le ingiustizie. Una persona con la schiena dritta, un vero servitore dello Stato. Credeva nella possibilità di rieducare i detenuti e perciò nel suo lavoro ha sempre fatto prevalere l’aspetto umano nel rapporto con i carcerati. Ho trovato delle cose scritte di suo pugno. Riflessioni sul mondo carcerario. Riflessioni che anche dopo molti anni sono attualissime. Papà pensava che una grande percentuale di detenuti sono solo delle persone sfortunate che da ragazzi non hanno avuto le migliori opportunità per vivere una vita diversa. Quanto mi è mancato? Le occasioni in cui ho avvertito la sua assenza ci sono state, ma non ho mai sentito la mancanza di qualcosa rispetto agli altri né ho cercato altrove un simile punto di riferimento. Ricordo con grande serenità il periodo della scuola elementare, media e superiore. Sono stati anni in cui mia madre non ha risparmiato le forze per far sì che io e mio fratello Claudio svolgessimo un regolare corso di studi e partecipassimo anche agli impegni extra scolastici, come gite, sport, i compleanni con i compagni di scuola. Ogni giorno mi rendo sempre più conto dell’immane sforzo che ha fatto mia madre. Un vero atto d’amore che l’ha portata anche alla scelta di non rifarsi una vita per dedicarsi completamente a noi figli. Mio padre mi è mancato soprattutto nei miei momenti importanti: il giorno della laurea, l’abilitazione all’esame di avvocato, il primo giorno di lavoro nella sua stessa Amministrazione… il matrimonio. Gli studi in giurisprudenza per me hanno avuto un significato speciale. Apprendere i principi giuridici fondamentali del nostro ordinamento, idealmente, mi ha avvicinato molto a mio padre perché durante gli anni universitari ho capito il senso della sua vita, del suo gesto (mi riferisco a quello di impedire favoritismi tra i detenuti ristretti nel carcere da lui diretto) e ciò in cui credeva. Ed ho anche capito perché, poi, non si è voluto tirare indietro rispetto alla scelta fatta (cioè quella di essere un ostacolo al malaffare all’interno delle mura carcerarie) affrontando con coraggio finanche uno come Cutolo. Barattare la propria vita piegandosi alle minacce ricevute significava, comunque, «morire dentro», perdere la dignità di uomo e di rappresentante dello Stato, quale lui si sentiva. Questo diceva a mia madre. Mi è bastato sapere il perché della sua morte per orientare la mia esistenza al senso di giustizia e legalità che, in concreto, non significa solo plasmare il proprio comportamento in conformità con le norme dello Stato ma anche avversare attivamente quelle situazioni illegali e vessatorie che altri tentano di imporci. Ho maturato e convertito il dolore della sua morte in qualcosa di positivo, anche da mettere a disposizione degli altri.


A Giuseppe Salvia è stata conferita dallo Stato la medaglia d’oro al valore civile.

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